Sangue d’Artista

LA CONDANNA DEL BELLO

Per spargere bellezza nel mondo l’artista si svena, è disposto a vivere nella povertà e nella fame pur di far fuoriuscire l’arte da sè stesso.

Quest’opera è stata realizzata con il vero sangue dell’artista, recuperato dal drenaggio resosi necessario dopo un intervento al seno.

La Condanna del Bello, Sangue d’Artista

 35,5×25
Sangue umano, colla acrilica, gesso e rame su tela.
Anno 2019

 La condanna del bello: considerazioni sulla natura dell’artista

È chiaro a tutti che il talento artistico è un dono di pochi, che è di pochi l’abilità a catturare la bellezza e a riprodurla in forme tangibili e fruibili e che di pochi è il privilegio di farne uno scopo esistenziale. Il talento sgorga libero e spontaneo in chi lo ospita, per la cui natura esso è humus e sostanza.
È facile riconoscere che nel mondo l’artista assolva ad una precisa funzione, quella di far fiorire la bellezza perché divenga disponibile all’uomo ordinario, che senza sforzo ne fruisce traendone piacere, gioia finanche pura estasi.
A me piace pensare anche che la natura dell’artista appartenga ad una sfera dell’esistere ai confini del divino, a quella dimensione vitale da cui scaturisce la bellezza e che per comodità scelgo di denominare “il Regno del Bello”. Un luogo non così agilmente accessibile all’essere comune come lo è per l’artista, che lo abita.
L’artista con la sua opera crea un ponte tra il comune e il divino, tra l’individuale e l’universale, tra l’ordinario e lo straordinario.
Per dar vita all’idea, che nel suo immaginario affiora spontanea, egli deve ogni volta superare un limite predefinito e allargare un confine già dato, e questo gli impone concentrazione, sforzo, applicazione e spesso anche dolore. Per poter fruire del contenuto dell’opera, anche all’essere comune è chiesto di oltrepassare un confine, di spostare un segmento del recinto dell’ordinario al cui interno si dipana la sua esistenza. Ma lo fa in assenza di sforzo e dolore, come se raccogliesse i frutti maturi caduti da un albero, per gustarne il sapore, senza aver vissuto la desolazione dell’inverno, la pena del germoglio in primavera e la lenta attesa del raccolto in estate. Ed anche in questa generosa offerta, l’artista si pone al servizio dell’uomo comune. Anche qui si delinea la sua funzione esistenziale, che altro non è che la sua condanna.
L’artista sembra non vivere per se stesso, ma in funzione di questo scopo, a cui si vota e si condanna.
Se guardiamo al narcisismo nei termini di amore per sè come funzione integratrice dell’Io, così come suggerisce Vezio Ruggieri, e svincoliamo questo processo psichico vitale da qualsivoglia componente patologica, possiamo ritenere che la forma di guadagno più significativa, che l’artista ricava dal suo sforzo incessante ed estenuante, altro non è che di questa natura.
Il guadagno narcisistico che l’artista trae dal suo lavoro può dirsi triplice: l’amore che egli torna a dare a se stesso attraverso il godere la sua opera, in quanto reificazione di parti di sè proiettate e in essa incastonate; le parti di sè proiettate nell’opera gli vengono riflesse da questa, che diviene così specchio per l’autoriconoscimento; l’apprezzamento che riceve dal pubblico celebra le sue capacità, offrendo anch’esso rispecchiamento al suo essere.
Riconoscendo egli stesso la sua opera, ricevendo una ridondante approvazione dall’altro e riscontrando il piacere che è in grado di provocare a costui, egli trae amore per sè, acquista integrità e dà così un senso al suo essere al mondo.
Il suo scopo esistenziale si compie nella sua opera. Ma tale compimento ha spazio solo nel tempo che trova, poiché, esaurita la fase estatica del successo di quell’opera, il suo organismo intero viene nuovamente attivato e rapito dal vortice di una nuova idea, che lo trascina ancora una volta nella delizia e nella pena della realizzazione.
L’opera d’arte compiuta è una configurazione che si completa nelle forme e nei significati che conduce, pertanto per l’arista è un’esperienza che si chiude. La mancanza di chiusura provoca la tensione e la perturbazione necessarie ad andare verso il completamento. Difatti, si può dire che l’artista sia un inquieto di natura, inquietudine che assomiglia ad ansia libera, in quanto i due stati hanno in comune la tensione attivata da una configurazione esperienziale in attesa di chiusura.
È molto probabile che egli divenga subito conscio della sua condizione psichica, ma la sua più grande difficoltà sta nel renderla comprensibile a chi lo circonda, a cui non sempre riesce a dare i codici per accedere al significato di alcune delle sue azioni o reazioni. Questa difficoltà può complicare i rapporti ed essere per lui ulteriore fonte di disagio, che andrà poi a mescolare nell’impasto di ciò che gli bolle in pentola. Da tutto questo risulta facile dedurre quanto l’isolamento sia per l’artista una necessità vitale.
La vera e piena gratificazione che conquista mediante la sua opera è puro piacere estatico, pertanto essa è effimera, caduca e transitoria ed è facile intuire quanto per lui sia molto più frequente l’essere attraversato da uno stato di tensione e di frustrazione, piuttosto che di appagamento e soddisfazione. Ma in assenza di tali stati perturbati non avrebbe la spinta a cercare nell’opera una soluzione ad essi. Ed eccolo, dunque, in preda alle istanze della sua natura, ponte tra il comune e il divino, in quel dove germoglia il bello e che egli partorisce attraverso tutto il suo essere.
Quando è impegnato nella creazione, il bisogno del compimento è talmente imponente da non lasciar spazio ad altro. Quel bisogno diviene l’unica figura nel campo percettivo ed emotivo, tanto che, mentre crea, il genio può dimenticare di aver bisogno di mangiare, di dormire e per giunta di appartenere ad un mondo relazionale. Tutto il resto è fuori, lui è dentro l’opera, è l’opera.
Senza l’appagamento narcisistico, motore e benzina del suo creare e senza il piacere estatico che l’atto creativo di per sè procura, forse nessun essere umano sarebbe capace di sopportare tanta fatica e tanta pena.
L’artista è alle prese di continuo con una famelica, insaziabile e irresistibile strega ammaliatrice: la perfezione. Questa, dal Regno del Bello, sembra inviargli fotogrammi, che si appiccicano sulle pareti del suo estro artistico nella stanza dell’ispirazione. Dove sedotto, rapito, con amore e passione si lascia imprigionare nella malia della produzione e riproduzione, affinché ciò che sta creando sia quanto più fedele possibile alle idee affisse e fisse su quelle pareti. L’opera è completa quando si compie tale agognata fedeltà, coronata di esaltazione ed estasi.
L’estasi è l’apice del piacere, è felicità pura. Il dramma è che l’estasi è uno stato transitorio, effimero e sfuggente, quindi o poi o prima finisce.
L’opera è una proiezione dell’artista, in essa egli si specchia e si riconosce ma, come ogni essere umano, lui cambia un filino ogni istante e può, quindi, anche accadergli che, con il passare del tempo, la percezione che aveva dell’opera compiuta muti. Vi scopre dei limiti che prima non percepiva. Quando ciò avviene, l’estasi come d’incanto scompare mentre strega Perfezione si è già stagliata col suo ghigno affilato: “se l’opera non è perfetta, non lo sono neanche io”. Così torna nuovamente a scontrarsi con dei propri limiti da oltrepassare. Ed ecco che l’inquietudine della ricerca si rimette in moto finanche ad assumere forme ossessive.
Non a torto e non a caso Carl Jung affermava:”Un uomo dotato di spirito creativo ha poco potere sulla sua vita. Non è libero. È incatenato e spinto dal suo demone”(1).
Sovente, l’artista non affermato stenta a riconoscersi tale, come se questa denominazione fosse una sorta di titolo onorifico che solo il riconoscimento di un pubblico, quanto più ampio possibile, può conferire. Solo il successo sembra offrire quello specchio sufficientemente esteso da convincere l’artista di essere tale. Solo il mondo sembra possedere questo arbitrio. Ma se riesce a guardare nei mille specchi che liberi sono fluiti da tutto il suo essere e a riconoscere egli stesso il genio che è in lui, allora vuol dire che lo ha già abbracciato e reso il suo migliore amico da portare a spasso per il mondo, che lo aspetta, pur con le sue infinite tempeste. Quando invece non ci riesce, avrebbe solo bisogno di una piccola formula magica da ripetere quanto necessario: “io sono un artista”. Dirselo non significa volare sul podio dell’esaltazione di sè, che è in polarità con l’autosvalutazione, bensì semplicemente aiutarsi a sentire di esserlo, a riconoscere di essere nato e di essere al mondo con questa geniale, straordinaria, divina essenza. Dirselo vuol dire usufruire di un’ulteriore fonte di piacere narcisistico, suo indispensabile nutrimento.
Poiché l’artista non produce per se stesso ma per il mondo, è solo quando questo apre i sensi, allarga le mani e raccoglie i frutti offerti ricambiando con il piacere e l’apprezzamento, che egli riesce a contattare il senso del suo essere al mondo. Se non trova un riscontro nel pubblico o i canali necessari a renderlo possibile, cade nello sconforto, nella demotivazione, nell’annichilimento, fino in veri e propri stati depressivi.
Rinunciare al genio è come recidere la parte più bella e preziosa di sé per sacrificarla alla sopravvivenza e all’impotenza, meglio piuttosto è continuare a soffrire e a faticare lungo i pendii scoscesi del monte Successo.
Il mondo ha bisogno della bellezza, che è insita nella vita, che è vita, e quindi necessita di questi magnifici semidei svolazzanti, che hanno il potere di plasmare la bellezza della vita in forme materiali e manifeste.
Il bello viene macinato e plasmato all’interno di in un twist di estasi-dolore-estasi, da cui ne esce un frutto che si coglie d’estate. Quando ammiriamo un’opera d’arte dovremmo sapere che quella creazione, che si offre a noi, contiene in sè tutte le stagioni.
Ci sono degli artisti che scelgono di convogliare le proprie energie creative verso altre attitudini e capacità, realizzandosi in settori professionali lontani dall’arte e che, al contempo, continuano a nutrire il proprio talento in angoli di “serio” diletto. Ma il genio che si assoggetta al bello, destinandovi la sua esistenza intera, lo fa perché sa che non si ha scampo da una condanna.

A Vincent Van Gogh, e a tutti i geni senza nome.

Dott.ssa psicologa Mara Spizzico